di Francesco Clementi*

C’è una sola certezza: la Costituzione nulla dice su a chi deve andare per primo l’incarico di provare a formare un nuovo governo. Soprattutto in una situazione in cui la prima coalizione potrebbe essere diversa dalla lista più votata e diversa dal gruppo parlamentare più numeroso

Il giorno dopo il voto, il 5 marzo, il nostro Paese entrerà in una fase nuova. E sarà un giorno importante: perché si verificherà quanti italiani, tra presenti e assenti, si sono sentiti coinvolti a tal punto da voler partecipare al voto; perché si analizzerà, naturalmente, il risultato delle elezioni alla ricerca dei vincitori e dei vinti; perché sarà misurata la reazione di quelli che ci guardano al di fuori dell’Italia ed esprimono, in merito, una valutazione, anche di tipo economico.

Quel giorno cadrà anche il primo tassello di un domino che, secondo le regole costituzionali, ci porterà: alla costituzione del nuovo Parlamento; all’elezione dei Presidenti delle Camere; e, infine, alla formazione di un nuovo Governo, sulla base del voto di fiducia che riceverà dalle forze politiche elette con il nostro voto.

Tuttavia, se il percorso costituzionale è certo, ad oggi, dal punto di vista politico, in particolare riguardo alla formazione del Governo, lo è molto meno di quanto sarebbe fisiologico attendersi. Infatti, se per il 23 marzo è stata già fissata la prima riunione delle Camere, e poi vi sarà l’elezione dei rispettivi Presidenti e degli Uffici di presidenza (per il Senato, peraltro, dopo la terza votazione, per l’elezione del Presidente si prevede il voto a ballottaggio), la fase della formazione del Governo è, invece, quella che desta maggiori preoccupazioni.

Perché? Perché dei cinque momenti che la compongono (la fase preparatoria, l’incarico, la nomina, il giuramento e la fiducia), riguardo ai primi due – entrambi non espressamente previsti dalla Costituzione – l’incertezza, come si dice, regna sovrana.

Le ragioni sono note e attengono, essenzialmente, ad un sistema politico-partitico che, in cerca di identità, vede le forze politiche organizzate più per convenienza che per convinzione in coalizioni talora eterogenee, pronte dopo il voto a dislocarsi in Parlamento senza alcun vincolo di legame reciproco.

Così, tanto la fase relativa alle consultazioni quanto l’incarico rischiano di prendere del tempo, nonché di dare adito a polemiche.

Eppure, in settant’anni di Costituzione, la prassi ci mostra varie soluzioni riguardo alla formazione del governo, a partire innanzitutto da un dato certo: le consultazioni non hanno alcun vincolo giuridico, ma svolgono soltanto la funzione politica di individuare il potenziale Presidente del Consiglio in grado di formare un governo che possa ottenere la fiducia dalla maggioranza del Parlamento.

In questo senso, nonostante la curiosa e suggestiva novità di chi, in campagna elettorale, chiede udienza al Quirinale per anticipare la lista dei suoi ministri o di chi, addirittura, platealmente giura in anticipo da Presidente del Consiglio, il Capo dello Stato non è vincolato a nulla, neanche ad affidare l’incarico automaticamente al primo partito. Per di più in questo caso la prima coalizione potrebbe essere diversa dalla prima lista votata; e questa, a sua volta, dal primo gruppo parlamentare.

Solo una regola vale: ossia che l’incarico – potenzialmente preceduto da un mandato esplorativo ad una personalità delle istituzioni, di solito il Presidente del Senato, o da un pre-incarico ad un esponente politico in grado di riuscire in tempi più lunghi a costruire una maggioranza, laddove le consultazioni non abbiano dato indicazioni significative – sarà conferito alla figura politica che, anche tenuto conto delle maggioranze che intanto si formeranno nell’elezione dei Presidenti delle Camere, sarà in grado di formare un governo che abbia la fiducia del Parlamento.

In ogni caso – sia chiaro – il principio di continuità delle istituzioni lascia in carica l’attuale governo fino alla contestuale e simultanea nomina di quello nuovo, perché senza un governo costituzionalmente non si può stare.
Ad oggi, di fronte ad un quadro politico incerto, tre ipotesi si stagliano all’orizzonte: il governo di alcuni, il governo di nessuno, il governo di tutti.

Il governo di alcuni è il governo di chi ha vinto le elezioni, ma non ha una maggioranza ed ha la necessità di costruirla. Si tratta dell’ipotesi più comune, ma anche di quella politicamente più difficile da realizzare, tenuto conto delle rilevanti differenze tra le forze politiche.

Il governo di nessuno, composto da non parlamentari, nasce di fronte ad un sostanziale pareggio senza vincitori, figlio di quella “pagina bianca”, sottolineata dal Presidente della Repubblica a fine d’anno, che vede affidare l’incarico a chi riuscirà a mettere insieme una maggioranza.

Infine, il governo di tutti è il governo delle intese più larghe possibili, finalizzate, inevitabilmente, da un lato a riscrivere, in vista di un nuovo voto, le regole del gioco che hanno favorito l’impotenza, ossia la legge elettorale e, dall’altro, a garantire la necessaria stabilità e credibilità interna ed internazionale in questo delicato processo.

A tre giorni di distanza dal voto, andando a votare, pensiamo dunque a quale soluzione sia preferibile. Per noi, ma anche – un poco – per il Paese.

* Francesco Clementi è professore di Diritto pubblico comparato presso l’Università degli Studi di Perugia.

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