di Mario Caciagli*

I sondaggi non aiutano le speranze del centrodestra di tornare al governo. Ma Forza Italia potrebbe avere molte più probabilità dei suoi alleati.

Il centrodestra è uscito a gonfie vele dal voto per l’Assemblea regionale della Sicilia. Per la coalizione sembrano aprirsi praterie fiorite in vista delle politiche del prossimo anno. Ne è sembrato convinto Silvio Berlusconi che, all’indomani di quel voto, si è detto sicuro che la coalizione raggiungerà il 40%, andando ben oltre i sondaggi attuali.

Tuttavia nemmeno per il centro-destra, pur messo molto meglio dei concorrenti, il cammino è in discesa come dice Berlusconi. Intanto val la pena ricordare che il voto dei siciliani è molto mobile. Cinque anni fa quel voto mandò alla presidenza del governo regionale un ex comunista. Stavolta vi ha mandato un post-fascista. La partecipazione nelle regionali siciliane è stata molto bassa: il 46%, come nella tornata precedente. Potrebbe però tornare a crescere nelle elezioni politiche con esiti non prevedibili nella stessa Sicilia.

Ciò può accadere in molte altre zone del Paese dove la partecipazione elettorale è crollata in tutte le recenti elezioni di secondo ordine, ma potrebbe risalire in quelle di primo ordine, le politiche appunto. I tassi di affluenza alle urne, così variabili, non consentono quindi previsioni sicure. Nemmeno per il centrodestra.

Dentro al centrodestra, inoltre, ci sono tensioni. Forse conflitti. Berlusconi, metta o no il suo nome sulla scheda, non potrà essere il candidato a premier. Né gli riuscirà tanto facilmente far assegnare quel ruolo a un suo uomo di fiducia. A chi, poi? Dovrà piuttosto misurarsi con le ambizioni, magari solo conclamate, di Matteo Salvini, se la Lega prenderà più voti di Forza Italia.

Né sarà soltanto questione di premierato. Ci sarà una lotta, magari non aperta ma di sicuro in sordina, per designare i candidati nei collegi uninominali. Ce la farà Forza Italia, cioè Berlusconi, a scalzare la Lega nei collegi della Lombardia e del Veneto, reclamati da quella a gran voce?
Se la voglia di vincere dell’intera coalizione è forte tanto da far sopire i dissensi sulla linea di partenza, questi si affaccerebbero nel governo. Ad esempio, per quanto riguarda l’Europa: magari Berlusconi è euroscettico come Salvini e Meloni, ma non potrà certo farlo vedere apertamente, essendo sotto osservazione da parte del Partito Popolare Europeo. Lo potrà fare ancora meno, se scegliesse come suo successore Antonio Tajani, l’attuale presidente del Parlamento europeo.

Il punto cruciale è un altro, allora. I sondaggi pre-elettorali sono sempre meno attendibili. Ancora meno lo sono a quattro mesi dalle elezioni. Per quanto approssimative, però, possano essere le cifre che gli istituti demoscopici stanno sfornando settimana dopo settimana, se ne può intanto ricavare quanto segue.

È possibile, ma improbabile, che il centrodestra raggiunga il 40% nella parte proporzionale. Ancora più difficile che al centrodestra vada il 70% dei collegi uninominali. Queste sono le due soglie previste da Roberto D’Alimonte perché una coalizione possa ottenere la maggioranza dei seggi nelle due camere. Non ci riuscirà di certo quella di centrosinistra, ma non ci riuscirà nemmeno quella di centro-destra. Può accadere che nel nuovo parlamento si fronteggino due debolezze.

Una volta eletto quel parlamento, Berlusconi – anche se, anzi soprattutto se, ne fosse rimasto fuori in attesa della sentenza della Corte di Strasburgo – potrebbe fare quello che in passato non ha mai fatto, cioè rompere l’alleanza di centrodestra. Sarebbe una bella piroetta, ma non proprio estranea alla natura di Berlusconi. Ed ai suoi interessi. Mollerebbe, cioè Lega e Fratelli d’Italia, tanto più se Forza Italia prendesse più voti e/o conquistasse più deputati e senatori dei due alleati. Alleati divenuti scomodi, una volta chiuse le urne. Fra altre ragioni, appunto quella di essere impresentabili in Europa.

In primavera Berlusconi avrà a disposizione due forni – metafora coniata, come si ricorderà, da Giulio Andreotti quando diceva che la Dc poteva scegliere fra Psi e Pci. Al posto del forno di Salvini e Meloni potrebbe scegliere quello del PD di Renzi.

Il Pd, anche se indebolito, potrebbe raggiungere una percentuale di voti superiore a quella di ciascuna lista di centrodestra, Forza Italia compresa. E si presenterebbe su posizioni propizie per trattare la formazione di un governo di larghe intese, avendo escluso un suo rapporto con la sinistra. Larghe intese per modo di dire, certo, perché nemmeno la Grande Coalizione all’italiana avrebbe una maggioranza in parlamento. Ma quella coalizione, in qualche modo al governo, potrebbe cercare appoggi occasionali di neo-eletti e vivacchiare per un po’ di tempo.

A vivacchiare potrebbe essere disposto Renzi, tanto più se potesse ritornare a Palazzo Chigi. A vivacchiare sarebbe disposto Berlusconi, pur di ripresentarsi come protagonista. Dopo, si vedrà. Quel che appare certo è che, comunque vada, ad uscire vincitore dalla consultazione del 2018 sarà Berlusconi. Grazie ai due forni.

* Mario Caciagli è professore emerito di Scienza Politica dell’Università di Firenze e presidente onorario della Società Italiana di Studi Elettorali.

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One Comment

  1. Umberto 30 Novembre 2017 at 15:59

    Bell’articolo. Secondo me molto dipendera’ da cosa faranno D’Alema-Bersani-Grasso: se andranno davvero da soli regaleranno a Berlusconi&Salvini 30-40 seggi all’uninominale che saranno decisivi

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