di Fulvio Venturino*

Chi ha vinto, chi ha perso e chi ha pareggiato nel voto del 4 marzo. Conclusione che si può far risalire al ‘sisma elettorale’ di 5 anni fa

Col senno di poi, dovremmo ricondurre la nascita della Terza Repubblica alla celebre frase di Pier Luigi Bersani del 2013: “Siamo arrivati primi, ma non abbiamo vinto”. Frase che fotografava una situazione, tutto sommato, non troppo dissimile da quella odierna: tre forze principali rappresentate in parlamento, nessuna delle quali dispone di una maggioranza; non centralità di Silvio Berlusconi e del suo partito; scomposizione (prevedibile) delle coalizioni elettorali; altrettanto prevedibili cambi di casacca di molti parlamentari, già pubblicamente invocati nelle prime interviste del dopo voto; sguardo di tutti rivolto al Colle, che oggi quantomeno ha un inquilino. Insomma, nei commenti del dopo voto si è fatto uso e abuso, ancora una volta, della metafora del terremoto elettorale. Vero. Però il 4 marzo abbiamo assistito ad una forte scossa di assestamento dopo il sisma del 2013.

Nella attuale politica dei tre poli, cominciata allora, è fin troppo agevole capire chi ha perso le elezioni. Nel contempo, è davvero complicato dire chi ha vinto. Cominciamo con le cose facili. Queste elezioni le hanno perse innanzitutto il Partito Democratico e Forza Italia. E come conseguenza immediata della sconfitta per entrambi si propone il problema della leadership. Si tratta di partiti le cui notevoli differenze organizzative sono state in parte oscurate dall’uso generalizzato dell’etichetta “partito personale”. Per la verità, in questo momento Pd e Fi sono accomunate da una evidente difficoltà di ricambio. Nel caso di Fi si tratta, ancora e sempre, dell’annoso problema di sostituire l’insostituibile Berlusconi.

Nel caso del Pd, invece, c’è un metodo di scelta riconosciuto e praticato: le primarie aperte per la scelta del segretario. Ma se la leadership del Pd è, ed è sempre stata, tecnicamente contendibile, nella pratica non si vedono all’orizzonte figure di leader adatte al momento. Non più tardi di dieci mesi fa, in occasione dell’ultimo congresso, Renzi ha inflitto al suo miglior competitor un distacco di 50 (cinquanta) punti percentuali. E dopo di allora nessun delfino ha preso a nuotare nel mare democratico.

Fra gli sconfitti è agevole annoverare Liberi e Uguali. In questo caso la sconfitta va commisurata alle aspettative del partito. Non si tratta(va), con tutta evidenza, di un partito orientato al controllo del governo sulla base di una qualche vocazione maggioritaria. E in ogni caso, la fatidica soglia del tre per cento è stata superata sia alla camera che al senato – seppure qualche candidato importate abbia fallito la prova dei collegi uninominali. Tuttavia, viste le aspettative della vigilia e l’espressione del leader a cose fatte, l’esperimento pare essere finito qui. E comunque si è trattato di un esperimento che è servito a mostrare qualcosa. In un passato recente a sinistra del Pd c’era un mondo politicamente (dis)organizzato in molteplici partitini e improbabili coalizioni. Oggi, forse, non c’è più niente.

E veniamo ai vincitori. Matteo Salvini è riuscito a trasformare la Lega (senza Nord) in un partito nazionale. La concomitanza con il declino di Forza Italia lo ha già reso il leader della coalizione di centrodestra, e qui la scossa di assestamento è stata davvero forte. Fra l’altro, in questa situazione, Salvini dovrebbe avere pochi incentivi a rompere la coalizione per effettuare manovre parlamentari. È vero che una coalizione fra Lega e Movimento 5 Stelle, di cui si era talora vagheggiato nel pre-elezioni, sarebbe una delle poche maggioranze praticabili. Tuttavia, verosimilmente, la stabile leadership della coalizione di maggiori dimensioni dovrebbe essere più attraente della partecipazione, in posizione subordinata, a un governo dagli orizzonti temporali quanto mai incerti. Per una volta, insomma, meglio la gallina domani che l’uovo oggi.

Il botto più forte è stato prodotto dal Movimento 5 Stelle. La questione dell’incarico per la formazione del nuovo governo è quanto mai ingarbugliata, però l’autodefinizione dei pentastellati quali pilastro del nuovo parlamento sembra incontrovertibile. In concomitanza con il passo di lato di Beppe Grillo, il Movimento sta passando dalla fase dell’infanzia – quando non si parlava con nessuno – a una più turbolenta fase adolescenziale, in cui al contrario si parla con chi ci sta, ovvero in linea di principio con tutti. Tradotto in linguaggio corrente, sembrerebbe trattarsi (ma il condizionale è d’obbligo) dell’offerta a formare un governo di minoranza. Con guida, composizione e programma del Movimento. Senza se e senza ma. E in più con la necessità di un voto di fiducia esplicito da ottenersi in due diverse camere. I governi di minoranza esistono. Però laddove esistono i presupposti partitici e istituzionali sono ben diversi.

E il sistema Italia? Va annoverato fra i vincenti o fra i perdenti di questa tornata elettorale? Non è colpa di nessuno in particolare, ma da un quarto di secolo il nostro sistema dei partiti è il più instabile e frammentato delle democrazie consolidate. Poi abbiamo un metodo di scelta del governo – dato dal sistema elettorale e dal parlamento – palesemente inefficiente. E qui, per la verità, le colpe sono molte e diffuse. Visto che tutti i governi uscenti della Seconda Repubblica sono stati battuti, quantomeno abbiamo a disposizione l’evidenza che l’alternanza è disponibile. Questo dovrebbe bastare a convincere le forze politiche che nessuna sconfitta e nessuna vittoria sono definitive. E dovrebbe indurre a scegliere, senza timori irragionevoli, una legge elettorale che dia la possibilità di governare alla minoranza più ampia. Chi vivrà vedrà.

* Fulvio Venturino insegna Scienza Politica all’Università di Cagliari. È presidente della Sise per il triennio 2017-2020.

 Articolo consultabile su Repubblica.it

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One Comment

  1. Carlo Fusaro 8 Marzo 2018 at 22:57

    Bravo conclusione inappuntabile!

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