di Nicolò Conti*

Tra pochi giorni voteremo alle elezioni europee, un evento che permetterà di testare gli equilibri tra le forze politiche in campo, dentro e fuori il perimetro del governo. Molti analisti concordano che l’esito elettorale potrebbe avere effetti sulla tenuta dell’attuale coalizione di governo giallo-verde, la quale potrebbe risultare destabilizzata da un risultato in grado di stravolgere gli equilibri esistenti all’interno dell’esecutivo. Si tratta, quindi, di un’occasione elettorale nella quale la posta in gioco è rilevante dal punto di vista della politica nazionale  sia per le dinamiche tra governo e opposizioni che all’interno dello stesso governo.

Le elezioni del 26 maggio servono, tuttavia, a eleggere i nostri rappresentati nel Parlamento europeo. Gli effetti sugli equilibri politici interni e sulla vita delle istituzioni nazionali dovrebbero pertanto essere solo indiretti, in quanto il risultato elettorale non costituisce di per sé una indicazione vincolante per il governo nazionale. Può, infatti, rappresentare al massimo una sorta di test sulle preferenze di voto degli italiani (a un anno dalla nascita del governo giallo-verde), peraltro in un contesto di partecipazione ridotta (in Italia, nel 2014, l’affluenza alle elezioni europee risultò oltre il 16% inferiore rispetto alle elezioni politiche del 2013). L’astensionismo non è un fenomeno solo italiano (anzi, di norma nel nostro paese più contenuto che in altri stati membri) e certamente ha a che vedere con la natura della posta in gioco, appunto non collegata alla formazione di un governo ma, piuttosto, di un’istituzione (il Parlamento europeo) percepita dai cittadini come distante e di cui spesso si sottovaluta l’influenza sulla vita reale. Perché la campagna elettorale si è incentrata quasi esclusivamente sui rapporti di forza all’interno del governo e pochissimo, invece, sull’Unione europea?

La modesta presenza di un dibattito sul futuro dell’UE nella campagna elettorale – o sulla politica europea del governo italiano e sulle strategie dei partiti all’interno del Parlamento europeo – sorprende ancora più da parte di quegli attori (la Lega e il Movimento 5 Stelle) che hanno promesso di voler cambiare l’Europa, e che in questa occasione avrebbero potuto spiegare meglio come fare. La campagna elettorale avrebbe potuto rappresentare un’ottima occasione per discutere a fondo delle loro opposte visioni (ma saranno poi davvero così divergenti?) e delle strategie per attuarle. Insomma, in occasione delle elezioni europee avrebbe potuto esserci più Europa nel dibattito pubblico, nelle diverse accezioni (positiva e negativa) e secondo le svariate aspirazioni dei partiti e dei leader politici. Invece non è stato così.

A pochi giorni dal voto, per esempio, non sappiamo ancora di quale gruppo politico del Parlamento europeo faranno parte i deputati eletti nelle liste del Movimento 5 Stelle e su quali alleanze essi potranno contare. Si tratta di aspetti fondamentali per valutarne la reale capacità di incidere sulle decisioni e sull’agenda dello stesso parlamento, e di dare attuazione ai punti del loro programma (che prevede, tra l’altro, l’attuazione di un salario minimo europeo e la redistribuzione obbligatoria dei migranti tra stati membri, argomenti di cui si è parlato pochissimo). Solo nelle ultime settimane della campagna elettorale è emersa una fondamentale contrapposizione tra Lega e Movimento 5 Stelle, con la prima (nelle parole di Salvini) orientata a forzare i vincoli europei sul deficit di bilancio e i secondi (nelle parole di Di Maio) garanti del rispetto di quei vincoli. Con tutta evidenza, si tratta di affermazioni di tale portata – per le politiche del governo, per il futuro dell’Italia in Europa – da meritare un approfondimento, oltre che chiarimenti circa la visione complessiva (sorprende, per esempio, la nuova direzione impressa da Di Maio, in passato molto più connotato su un versante euroscettico). Invece, la campagna elettorale è risultata complessivamente superficiale quanto alla politica europea, e si è assistito a una ridotta capacità di dialogo tra le forze politiche in campo sui temi più rilevanti. Difficilmente gli elettori saranno in grado di farsi idee precise sui diversi programmi per l’Europa e sulle reali capacità dei contendenti di realizzare quei programmi.

Più probabilmente, gli elettori voteranno guardando alle vicende della politica nazionale, alla popolarità dei leader, e non certo pensando all’Europa se non in termini astratti e sull’onda di atteggiamenti generici (pro o contro). Non sarà una novità. In Italia (e in buona parte degli altri stati membri) le elezioni europee sono sempre state considerate elezioni di secondo ordine, utilizzate dalle forze politiche per sfidarsi e misurare la forza reciproca nella prospettiva della politica nazionale. Molti osservatori avevano anticipato come l’avanzata delle forze euroscettiche avrebbe portato a una più marcata politicizzazione dell’Unione europea, quindi a una sua centralità nel dibattito pubblico e a una maggiore consapevolezza delle principali sfide da parte dei cittadini. Almeno in Italia, ciò non sembra essere avvenuto. Le principali forze politiche hanno dato luogo a una competizione prettamente in chiave domestica, ma più povera di contenuti programmatici rispetto alle elezioni politiche nazionali.

*Nicolò Conti è professore ordinario di Scienza Politica presso l’Università degli Studi di Roma Unitelma Sapienza

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