di Carlo Fusaro*

L’idea che dal voto di marzo possa uscire una maggioranza chiara è utopia: bisognerà trattare. Ecco qualche lezione che dobbiamo apprendere dall’estero

Nell’Unione Europea i governi sono quasi tutti parlamentari: devono poter contare sul sostegno o almeno sulla non ostilità del Parlamento. Nel ventesimo secolo la funzione di esprimere e sostenere governi è stata svolta dai partiti. Oggi è ancora così, ma i mutamenti sociali rendono più frammentate le assemblee e più deboli i partiti stessi, per cui aggregare i consensi necessari riesce di rado a uno solo e impone la collaborazione di più partner.

In passato collaborazioni di questo tipo sono state praticate in molti paesi, ma oggi l’Europa intera ricorda l’Italia dei pentapartiti: basta vedere i dati sulla consistenza dei gruppi parlamentari nelle varie assemblee.

Persino Paesi che avevano funzionato come democrazie maggioritarie devono ricorrere ad altre soluzioni, e a questo proposito sono emblematici i casi di Regno Unito e Spagna. Altrove, dove pure le coalizioni erano ben sperimentate, si fa più fatica a raggiungere le necessarie intese, anche per la presenza di partiti c.d. populisti (Austria, Belgio, Danimarca, Germania, Finlandia, Norvegia, Paesi Bassi): 543 giorni per fare il governo Di Rupo e 136 per il governo Michel (Belgio); 225 per il governo Rutte (Paesi Bassi); 125 per il governo Rajoy (Spagna); quanto al nuovo governo Merkel (Germania), si sa solo che bisognerà attendere fino a febbraio (oltre 120 giorni dal voto).

Il governo maggioritario di partito demoespresso è dunque un’eccezione.

Come è affrontato il problema? Direi in quattro modi non mutuamente esclusivi:

(a) per via costituzionale, con norme volte a regolare il ricorso sistematico a governi di minoranza (Svezia) o a disciplinare nei dettagli la formazione dei governi (Germania e soprattutto Grecia);
(b) per via legislativa, con leggi elettorali majority assuring (sempre o il più delle volte: vedi leggi Calderoli e Italicum, nonché le leggi elettorali di Armenia, Francia, San Marino; ma in Armenia anche norme costituzionali disciplinano la formazione del governo, e in Francia sono le elezioni presidenziali a far da traino);

per via politica, con due varianti:
(c) accettare governi minoritari (vedi i casi spagnolo e danese, clamoroso questo per esiguità della base parlamentare); oppure
(d) puntare alla faticosa costruzione di maggioranze fondate su coalizioni postelettorali.

Nel contesto italiano di oggi, le vie istituzionali (a e b) sono precluse: la Costituzione appare intangibile; la legge Rosato, figlia dell’esito del referendum costituzionale del 2016 e degli equilibri politici successivi, rende improbabile la formazione elettorale di una maggioranza. In attesa che si riparli di riforme, occorre perciò fare di necessità virtù razionalizzando la formazione postelettorale delle maggioranze e prendendo esempio dalle democrazie che hanno per prime e a lungo sperimentato metodi efficaci per costruire coalizioni decentemente solide.

Dovremmo attrezzarci tutti a questo fine: organi dello Stato, partiti, informazione, cittadini. Adottando procedure trasparenti e partecipate per formare governi relativamente stabili, in grado di attuare un programma, senza fare dei necessari passaggi parlamentari un permanente regolamento di conti. In questa prospettiva, ecco un primo decalogo.

  • Non parlare di nuove elezioni anticipate prima ancora di aver votato: anzi prima che siano state sciolte le Camere attuali.
  • Pretendere che i partiti sottopongano programmi chiari sui punti programmatici chiave, limitando le ambiguità interne a coalizioni e liste.
  • Concordare che l’incarico di formare il Governo vada in prima battuta al leader del partito maggiore della coalizione che ha avuto più voti (oppure della lista singola più votata), ovvero altro suo candidato che, sulla base delle consultazioni, ha più possibilità di formare un governo. Accettare che, in caso di coalizione, il presidente del Consiglio sia in ogni caso una personalità del partito con più voti.
  • Lasciare alle forze politiche tutto il tempo necessario in vista di accordi di governo, spiegando che non si può cominciare a strepitare all’ingovernabilità dopo poche settimane. Verificata la volontà di massima delle forze che si accingono a fare un governo, occorre chiedere che siano condotte trattative meticolose su tutte le principali policies.
  • Accettare senza polemiche pretestuose che il governo Gentiloni continui a operare, salve scelte di fondo, per i mesi delle trattative: una sorta di ordinaria amministrazione rinforzata relativamente condivisa.
  • Chiedere che sia sottoscritto un vero e proprio Patto di coalizione, analitico, che non rinvii a successivi bracci di ferro, ma contenga tutte le scelte principali rebus sic stantibus, incluso l’impegno dei gruppi di maggioranza a votare sempre e comunque insieme senza fare ciascuno sponda con pezzi di opposizione per forzare la mano agli alleati. Se del caso, indicare deroghe concordate per policies specifiche.
  • Individuare pochi temi (per esempio le questioni etiche) sui quali i parlamentari della maggioranza potranno esprimersi fuori dal vincolo di gruppo e di coalizione.
  • Ciascuno dei partiti che si accingono ad allearsi, nelle forme liberamente determinate, deve consultare la propria base sul patto concluso.
  • I gruppi della maggioranza si impegnano a non chiedere mai il voto segreto.
  • I gruppi della maggioranza si impegnano a votare sempre come il governo chiede senza bisogno di fiducia, salvi casi di violazione, da parte di componenti di qualche gruppo, del punto VI.

* Già professore di Diritto pubblico comparato, Università di Firenze

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