di Simona Piattoni*

Dal 23 al 26 maggio si svolgeranno le elezioni del Parlamento europeo. Le incertezze che circondano questo appuntamento ne fanno un evento particolarmente atteso, sia per le ripercussioni che avrà sugli equilibri istituzionali della Ue sia per l’impatto che avrà sulle politiche comunitarie del prossimo decennio. Dal risultato delle elezioni dipenderà infatti anche l’elezione del Presidente della Commissione Europea, che avverrà in novembre, e, più indirettamente e forse anche per compensazione, la nomina del nuovo Presidente della Banca Centrale Europea

L’effetto potenzialmente dirompente di questo evento contrasta con la ancora scarsa attenzione dei media e la ancora scarsa mobilitazione nazionale dei capi di governo e dei leader di partito a livello nazionale. Non è chiaro se si cerchi di attutire l’impatto di questo appuntamento facendolo passare per così dire in sordina, o se invece si sia fondamentalmente convinti che si tratterà ancora una volta una “elezione di secondo livello”, meno importante rispetto agli appuntamenti nazionali, e pertanto non meritevole di un significativo impegno.

Nota: allargamento dell’Unione Europea:  1979 – EU9 – 9 Stati membri: Germania, Francia, Italia, Paesi Bassi, Belgio, Lussemburgo, Regno Unito, Danimarca e Irlanda; 1984 – EU10 – I 9 Stati membri + Grecia nel 1981; 1989 – EU12 – I 10 Stati membri + Spagna e Portogallo nel 1986; 1994 – EU12 – 12 Stati membri; 1999 – EU15 – I 12 Stati membri + Austria, Svezia e Finlandia nel 1995; 2004 – EU25 – I 15 Stati membri + Polonia, Ungheria, Slovenia, Slovacchia, Repubblica Ceca, Estonia, Lettonia, Lituania, Cipro e Malta nel 2004; 2009 – EU27 – I 25 Stati membri + Bulgaria e Romania nel 2007; 2014 – EU28 – I 27 Stati membri + Croazia nel 2013

La partecipazione elettorale alle elezioni europee è andata scemando nel corso del tempo. Questo è stato soprattutto dovuto all’ingresso nella Ue di paesi sempre più euroscettici e paradossalmente, vista la loro lunga esperienza autoritaria, disinteressati al momento elettorale, quali i paesi dell’Europa centrale e dell’est. Il tasso di partecipazione elettorale più basso nel 2014 è stato registrato dalla Slovacchia (13%) mentre quello più alto si è avuto in Belgio (quasi 90%) dove, occorre dirlo, vige ancora formalmente l’obbligatorietà del voto.

Più in generale, pare che la partecipazione al voto sia da attribuire alla maggiore o minore vicinanza (anche geografica) dei cittadini al parlamento stesso, ma ancor di più all’impegno profuso dai leader politici nazionali per farne un appuntamento significativo in sé. Insomma, i politici nazionali sono ancora i gatekeeper della democrazia europea.

Tre fattori concorrono però a fare dell’elezione 2019 un evento potenzialmente dirompente. Anzitutto l’atteso incremento del consenso nei confronti dei partiti euroscettici. Le elezioni europee sono da sempre caratterizzate dalla particolarità di dare maggiore voce e rappresentanza a partiti più piccoli e di protesta, proprio perché considerate come un’opportunità per manifestare il proprio scontento per l’azione del governo nazionale.

Ciononostante, le grandi famiglie europee dei cristiano-democratici, dei social-democratici e dei liberali hanno tradizionalmente dominato il parlamento europeo, raccogliendo nel loro insieme dal 55% al 63% dei voti. Dal 2014 questa percentuale è scesa al 54%, e un ulteriore calo è atteso quest’anno, quindi la dominanza della cosiddetta Grande Coalizione (GroKo) cristiano-sociale è ormai in forse.

Questo è un bene e un male al tempo stesso. È un bene perché la supremazia delle due maggiori famiglie politiche europee anestetizzava il dibattito e dava la sensazione ai cittadini che non vi fosse alcuna effettiva possibilità di incidere sul “governo” dell’Unione. È per certi versi un male perché le coordinate a cui i cittadini europei erano abituati – la distribuzione dei voti sull’asse destra-sinistra – è stato sostituito dalla distribuzione dei voti sull’asse sovranazionalismo-sovranismo: insomma, la politicizzazione crescente e ormai conclamata del livello europeo porta i cittadini a schierarsi pro o contro l’Unione stessa e potrebbe quindi sottoporla a tensioni difficilmente governabili.

Il secondo motivo per la potenziale dirompenza di queste elezioni è che potrebbero essere l’occasione per un significativo scontro inter-istituzionale. Nel 2014 venne inaugurata la pratica per gli euro-partiti di indicare il proprio candidato di punta (Spitzenkandidat) per il posto di Presidente della Commissione europea sul quale il Parlamento europeo ha l’ultima parola. L’identificazione dei possibili candidati alla presidenza della Commissione e degli altri commissari è però competenza dei capi di governo degli stati membri, che si sono tradizionalmente messi d’accordo fra di loro gestendo a livello intergovernativo gli equilibri fra le varie posizioni. Il tentativo di legare l’orientamento politico della Commissione al risultato elettorale non è ben visto dai capi di stato e di governo, che già nel 2014 dovettero accettare la designazione di Jean-Claude Juncker.

Questo induce alcuni capi di governo, al contempo leader di partito nazionale, ad opporsi al ripetersi di questa pratica che potrebbe quindi non consolidarsi. Rimane inoltre difficile per qualsiasi candidato, sia esso il tedesco Manfred Weber (D-PPE, Partito Popolare Europeo) o il finlandese Alexander Stubb (SF-PPE, Partito Popolare Europeo) oppure lo slovacco Maroš Šef?ovi? (SK-S&D, Socialisti e Democratici) o l’olandese Frans Timmermans (NL-S&D, Socialisti e Democratici) o ancora il belga Guy Verhofstadt (B-ALDE, Alleanza dei Democratici e dei Liberali per l’Europa) o la danese Margret Vestager (DK-ALDE, Alleanza dei Democratici e dei Liberali per l’Europa) farsi conoscere in ciascuno dei 28 elettorati europei.

Vi è infine l’alea della Brexit, che dovrebbe liberare molti seggi e ridisegnare gli equilibri fra i partiti. Anzitutto, verrebbero a perdere seggi sia il gruppo dei Socialisti e Democratici (S&D) per l’uscita dei Labour, sia il gruppo dei Conservatori e Riformisti Europei (ECR) a cui aderivano i Tory, sia infine il gruppo dell’Europa delle Nazioni e della Libertà (ENF) che sconterà l’assenza di UKIP. Si prevede infatti che si svuoteranno i partiti maggiori (EPP e S&D, -42 e -55 seggi rispettivamente).

E vi è incertezza circa la tenuta dei liberali e dei verdi. Alde è dato da alcuni stabile a 68 seggi e da altri in crescita a di 30 seggi, ma su questo fronte molto dipenderà dalla decisione di Emmanuel Macron se lanciare il partito europeo La République En Marche (LREM). I Verdi Europei – Alleanza Libera Europea (G/EFA) secondo i sondaggi rischiano di perdere 6 seggi. Inoltre, si è quasi certi che i partiti di estrema destra e sinistra euroscettici guadagneranno molti seggi: il gruppo di Sinistra Unitaria Europea/Sinistra Verde Nordica (GUE/NGL) arriverebbe a incrementare la sua presenza in parlamento di 10 seggi; anche per il gruppo di Europa della Libertà e della Democrazia Diretta (EFDD) si prospetterebbe un saldo positivo di 7 seggi; ancor più rilevante è la crescita attesa per il gruppo di Europa delle Nazioni e della Libertà (ENF), che potrebbe crescere di ben 26 seggi; infine, anche per il gruppo dei Non Iscritti (NI) si parla di un aumento di 13 seggi.

Nonostante questi travasi di voti, il guadagno complessivo dei partiti euroscettici non sarebbe però tale da scardinare gli equilibri, che quindi vedrebbero con ogni probabilità il riproporsi di una grande coalizione estesa ai liberali e forse anche ai verdi. Può sembrare un piccolo cambiamento, ma non lo è, visto che i partiti euroscettici faranno la loro parte come opposizione.

* Professore di Scienza Politica all’Università di Trento

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