di James Newell*

Lo scorso 22 marzo il Consiglio Europeo aveva ribadito la data del 29 marzo come termine ultimo per approvare l’accordo messo a punto da Theresa May. Se l’accordo fosse stato approvato dal parlamento britannico entro quella data, il paese sarebbe potuto uscire dall’Unione il 22 maggio. In caso contrario si sarebbero aperte due strade. La prima prevedeva per il 12 aprile l’uscita senza accordo. La seconda strada implicava invece la revoca dell’articolo 50, oppure la richiesta di una maggiore disponibilità di tempo. Avendo prevalso quest’ultima opzione, a questo punto – nonostante le convulse trattative di queste ore – non è neppure esclusa la partecipazione del Regno Unito alle elezioni europee in calendario il prossimo 26 maggio.

Finora, il parlamento di Westminster ha votato per tre volte contro l’accordo stipulato con l’UE; inoltre si è espresso contro il no deal; e ha votato contro tutte le alternative che sono state via via discusse. Nelle scorse ore ha addirittura approvato una legge che vieta in maniera vincolante un’uscita senza accordo.

Perché il sistema politico del Regno Unito si trova in una situazione così grave, tale da danneggiare irrimediabilmente la reputazione dell’intera classe politica del paese? Per rispondere a questa domanda occorre chiarire cinque punti.

Primo. Il Partito Unionista Democratico nordirlandese, i cui parlamentari sono necessari per garantire la maggioranza al governo May, ritiene inaccettabili le attuali modalità di reintroduzione del confine con l’Irlanda. Nessuno vuole un confine rigido, ma la soluzione proposta da May – il cosiddetto backstop – viene intesa come una vera e propria separazione dell’Ulster dal resto del Regno Unito.

C’è poi la posizione dei fautori più accaniti della Brexit, i quali invece ritengono che l’accordo, nelle forme attualmente previste, non metta in pratica l’uscita del Regno Unito dall’UE nella misura da loro desiderata.

Infine, tanto il Partito Laburista quanto i Conservatori annoverano fra i loro parlamentari un certo numero di sostenitori del remain, i quali hanno rifiutato l’accordo pur evitando di assumere una posizione esplicita contro l’uscita.

Secondo. I simpatizzanti dei due maggiori partiti sono fortemente divisi. I sondaggi più recenti fra l’altro mostrano che attualmente esisterebbe una maggioranza di cittadini favorevoli al remain. Questa configurazione non dipenderebbe dal cambiamento delle opinioni di coloro che nel 2016 avevano votato a favore della Brexit. Piuttosto, fra coloro che allora si astennero e fra i giovanissimi che all’epoca del referendum non avevano l’età per votare, i sostenitori del remain sono in quantità doppia rispetto ai brexiter.

Fra questi ultimi, i supporter di entrambi i partiti maggiori preferirebbero l’uscita senza accordo; coloro che aspirano al remain vorrebbero invece un secondo referendum, oppure la revoca dell’articolo 50.

Ad accomunare invece una larghissima maggioranza di cittadini (di tutti gli orientamenti) è l’opinione secondo cui il governo stia facendo un pessimo lavoro.

Terzo. L’opinione pubblica è polarizzata, e dunque le posizioni moderate sono poco diffuse. L’appartenenza alla Ue è rimasta a lungo una questione poco rilevante, ma per effetto del referendum è divenuta una questione identitaria di estrema importanza. In pratica, oggi si tratta di stabilire cosa significhi essere inglese.

Quarto. La situazione attuale deriva dalla incapacità dei partiti principali di svolgere una funzione pedagogica, ovvero di proporre ai loro simpatizzanti una convincente definizione di cosa significhi essere cittadini inglesi in una Europa unita. Questo problema è in gran parte dovuto alla storica ambiguità mantenuta dalle élites politiche britanniche in tema di integrazione europea. In conseguenza della quale i temi che in passato si sono affacciati alla discussione pubblica hanno provocato profonde divisioni all’interno dei partiti politici.

Quinto. L’attuale impasse dipende anche dalle difficoltà che incontrano le istituzioni di una democrazia di tipo maggioritario – quale è il Regno Unito – allorché l’agenda politica include temi divisivi, di cui la Brexit è divenuta un esempio lampante.

Al momento, sono possibili diversi esiti. Ma poiché nessuna delle soluzioni prospettate è agevole, la Brexit è destinata a rimanere un tema caldo per molto tempo a venire. Di conseguenza, chi scrive non ha la possibilità di assumere una posizione neutrale, e le sue opinioni sono basate sulle quattro premesse enunciate di seguito.

In primo luogo, la Brexit è un atto di follia collettiva perpetrato dai perdenti della globalizzazione, i quali hanno consumato la loro vendetta dopo essere stati abbandonati dal Partito Laburista nei primi anni Novanta, quando sotto la guida di Tony Blair il partito accettò l’agenda neo-liberista.

In secondo luogo, democrazia non significa solo conteggio delle preferenze, ma anche utilizzo di processi deliberativi e protezione dei diritti delle minoranze.

Terzo, un’ampia maggioranza di parlamentari nel 2016 fece campagna a favore del remain.

Quarto, i politici sono investiti di una doppia responsabilità, in quanto non devono semplicemente rappresentare l’opinione pubblica, ma devono anche in qualche misura dirigerla.

Ciò chiarito, la maggioranza dei parlamentari che desiderano la continuazione della partecipazione del Regno Unito all’UE dovrebbe agire di conseguenza, nonostante il referendum del 2016. Il risultato di quel referendum non è legalmente vincolante; inoltre, soltanto un terzo dell’elettorato totale votò allora a favore della Brexit, e quei circa 17 milioni di persone potrebbero essersi sbagliate.

Insomma, soltanto osservatori intellettualmente disonesti rifiuterebbero di riconoscere che la richiesta dei brexiters di rispettare “la volontà del popolo britannico”, espressa quasi tre anni fa, è in molti casi strumentale e avanzata in malafede.

Gran parte di ciò che sta accadendo in questi giorni è da ricondursi a una precisa responsabilità del Partito Laburista. In parlamento il partito ha recentemente manifestato divisioni che si sono rivelate decisive per gli esiti delle votazioni. In generale, poi, la Brexit è stata promossa – attraverso l’enfatizzazione di temi nazionalisti e anti-immigrazione – da una estrema destra molto aggressiva, nell’opporsi alla quale il Labour ha palesato la tradizionale mancanza di fiducia in sé stessa che spesso attanaglia la sinistra.

Adesso, i leader del partito dovrebbero trovare il coraggio di dire ai simpatizzanti laburisti che sostengono la Brexit che finora si sono sbagliati nell’individuazione delle cause dei loro problemi. Essi dovrebbero unire le loro forze con quelle degli altri partiti di opposizione – il Partito Nazionalista Scozzese, i Liberal-Democratici e i Verdi – e con una minoranza dei Conservatori per opporsi attivamente alla prosecuzione della Brexit. In caso contrario, il giudizio storico nei loro confronti sarà di condanna definitiva.

* James Newell è attualmente ‘visiting scientist’ all’Università di Torino.

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