di Paolo Natale*

Il dilemma esistenziale che permea l’azione politica del Pd è: chi è, o chi dovrebbe essere, il suo elettorato di riferimento? Riesce a rappresentare effettivamente, oggi, le fasce più deboli, più povere della popolazione?

Chiudevamo con una domanda cruciale, Luciano Fasano ed io, il nostro libro L’ultimo partito. 10 anni di Partito Democratico. Dopo la nuova vittoria di Matteo Renzi alle primarie, i mesi successivi sarebbero stati probabilmente decisivi per il cammino del Pd, per dichiarare esaurito o, viceversa, per consolidare il suo auspicato ruolo di motore del cambiamento della politica italiana: sarà dunque un partito o una promessa mancata, ci si chiedeva, oppure saprà finalmente corrispondere alle molteplici aspettative che ne avevano accompagnato la nascita?

A distanza di un anno dalla sconfitta nel referendum, che ha messo in luce l’isolamento al quale la strategia del nuovo segretario aveva condannato il Pd, attaccato sia dall’opposizione interna che da quella esterna al partito, possiamo oggi abbozzare una prima risposta, che non è certo soddisfacente per le sue fortune. I consensi per il Partito Democratico continuano infatti a diminuire. Non soltanto a beneficio delle formazioni alla sua sinistra, che peraltro stentano a capitalizzarne la crisi, ma anche verso altre direzioni, troppe per poter riuscire facilmente a far tornare all’ovile le pecorelle smarrite.

Il dato rappresenta il consenso elettorale nei periodi in cui si è votato (Europee 2009, Politica 2013, Europee 2014) o il consenso dato dai sondaggi Ipsos.

Ad eccezione di sporadici casi locali come quello milanese, dove il Pd continua ad ottenere consensi, grazie alla sua efficace interazione con il sindaco Beppe Sala, nel resto del Paese il partito non riesce a mantenere quel favore che aveva toccato il punto più elevato alle elezioni europee del 2014. Da allora, gli è rimasto fedele solo poco più della metà del suo elettorato, mentre quasi il 10% preferisce oggi la sua sinistra, una quota molto simile si orienta verso i 5 stelle, una piccola percentuale si rivolge a destra e un folto gruppo (il restante 20%) vira verso l’area grigia dell’astensionismo e dell’indecisione.

Le stime più benevole ci dicono che il suo consenso attuale non supera di molto il risultato di Bersani alle elezioni politiche del 2013, che già allora non aveva certo fatto gridare al successo; ma quelle meno benevole raccontano di un Pd ancora più limitato, inferiore – sia pur di poco – al 25%. E le simulazioni dei collegi uninominali non sono certo promettenti, in vista delle consultazioni politiche del prossimo anno.

Le motivazioni di questo costante allontanamento dei suoi elettori sono evidenti: scelte strategiche inadeguate, continue opzioni tattiche, litigi interni di difficile comprensione, polemiche di dubbia interpretazione e, soprattutto, la mancanza di un progetto condiviso o condivisibile da ampi strati della popolazione. Difficile che, se questi comportamenti non cambiano, possa mutare in maniera significativa anche l’orientamento di voto di quella parte di italiani che, comunque, guarda al Pd come una possibile scelta contro i diversi populismi.

Ma c’è un altro interrogativo di fondo, quasi un dilemma esistenziale, che permea l’azione politica del Pd: chi è, o chi dovrebbe essere, il suo elettorato di riferimento? Riesce a rappresentare effettivamente, oggi, le fasce più deboli, più povere della popolazione? Sono ormai più di vent’anni che, se cerchiamo di capire quale sia l’elettorato più vicino ai partiti di sinistra, come il Pds o i Ds di un tempo, scopriamo che è composto prevalentemente dai ceti più istruiti, meno ‘bisognosi’, con un reddito fisso assicurato (impiegati, soprattutto statali, insegnanti, ceto medio produttivo, pensionati abbastanza garantiti).

Il famoso paradosso pronunciato a metà degli anni Novanta da D’Alema (“la Lega è una costola della sinistra”) sintetizzava chiaramente la situazione che si stava producendo nel Paese. Gli operai del Nord, in particolare quelli delle piccole imprese, gli artigiani a rischio, i commercianti meno tutelati, gli abitanti delle zone più periferiche delle grandi città, tutte queste fasce di popolazione trovavano la loro sponda elettorale soprattutto in Berlusconi e in Bossi, disdegnando le politiche e le parole d’ordine di Pds e Rifondazione.

Anche con la nascita del Pd, prima di Veltroni, poi di Bersani e infine di Renzi, la situazione non è per nulla mutata da allora. Semmai, il Movimento 5 stelle si è aggiunto ai tradizionali partiti di centro-destra, diventando il riferimento di quella parte di cittadinanza impaurita dalla possibile involuzione socio-economica del nostro Paese.

Centro-destra e M5s hanno buon gioco a sottolineare lo scollamento esistente tra le ricette della sinistra e i sentimenti della popolazione economicamente meno fortunata. Se il Pd non si reinventa parole d’ordine nuove, che tengano maggiormente conto delle opinioni e delle paure di quegli elettori, è difficile che si possa erigere a loro punto di riferimento.

Il problema dunque è presto detto: se le politiche del Pd non piacciono agli elettori meno forti dal punto di vista sociale ed economico, il centrosinistra diventerà sempre più il punto di riferimento dell’elettorato più garantito? E si potrà chiamare ancora sinistra, privata del suo naturale referente elettorale? Un bel dilemma.

*Paolo Natale è professore al dipartimenti di Studi sociali e politici dell’Università di Milano.

Articolo consultabile su Repubblica.it

Condividi

Leave A Comment

Altri Articoli