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di Luca Verzichelli*

Finalmente si è votato. Ora possiamo individuare vincitori e sconfitti, soprattutto se ragioniamo in termini di analisi del voto nazionale. Fatta salva l’evidenza, circolata a urne appena chiuse, circa l’impossibilità di una nuova maggioranza formata dai soli gruppi dei popolari e socialisti-democratici  nel parlamento di Bruxelles, cogliere gli effetti del voto a livello europeo è certo più difficile.

In particolare, non si è ancora parlato molto del rinnovamento che questa tornata elettorale produrrà nel personale del parlamento europeo. Ci vorranno un paio di settimane per quantificarne la portata, ma sappiamo che con un tasso di ricambio ben al di sopra del 50% di neoeletti, a causa dei terremoti elettorali in molti paesi membri, quella del 2019 sarà l’elezione con il maggior numero di neofiti nella storia oramai quarantennale del Parlamento Europeo.

È una buona o cattiva notizia? Certamente, i fautori della necessità di un «cambiamento in Europa» che hanno punito i partiti mainstream propendono per la lettura ottimistica. Tuttavia l’esperienza insegna che la sostituzione del personale politico è una condizione necessaria ma non sufficiente per ottenere un mutamento di rotta nel funzionamento delle istituzioni.

Già. In fondo votiamo per far vivere le istituzioni attraverso il processo di rappresentanza. Alle elezioni europee si eleggono, per l’appunto, i parlamentari europei. Quelli che «contano poco», ma che hanno il delicato compito di collegare elettorati e partiti nazionali alle istituzioni sovranazionali. Questo rapporto appare oggi chiaramente deteriorato, e ci si deve chiedere come e fino a che punto i nuovi arrivati nel Parlamento Europeo riusciranno a trovare un buon equilibrio nel proprio lavoro di rappresentanti.

Proviamo allora a ragionare sui primi dati a livello di continuità e di qualità della classe politica, guardando al segmento italiano del ceto parlamentare europeo eletto nel 2019.

Un primo significativo elemento di preoccupazione sta nelle ragioni molteplici di un ricambio che non si lega soltanto alla bocciatura «nelle urne» di molti parlamentari uscenti. Come in passato, la delegazione italiana si mostra scarsamente connotata da quel livello di continuità tipico delle istituzioni parlamentari consolidate. Solo 54 i ricandidati sugli 82 parlamentari del quinquennio precedente. Rispetto a questa cifra, i rieletti sarebbero – ma per avere un quadro esaustivo dovremo attendere il gioco delle scelte da parte dei plurieletti – soltanto 29.

È difficile pensare che un gruppo fortemente connotato dagli esordienti, molti dei quali destinati ad un gruppo residuale come quello populista dell’Europa delle Nazioni (a cui appartiene la Lega), possa esprimere una leadership parlamentare robusta, anche se la delegazione italiana confermerà anche personalità di spessore, a cominciare dal Presidente e da uno dei vice-presidente uscenti,Antonio Tajani David Sassoli.

In secondo luogo, un limite alla portata innovatrice del plotone di rappresentanti italiani esordienti a Strasburgo (ed a Bruxelles) può essere rappresentato dalla logica di «colonizzazione» messa in atto dalla leadership nazionale dei partiti.

Una logica sin troppo evidente nei tre partiti che hanno optato per l’esposizione simbolica, in tutte le circoscrizioni o in molte di esse, del leader stesso. Milioni di italiani hanno dunque espresso preferenze per Salvini e Meloni pur sapendo che essi non rinunceranno ai loro rispettivi ruoli «domestici» per il seggio europeo, e tanti sapevano che lo stesso Berlusconi dovrà scegliere una tra le quattro circoscrizioni in cui si era candidato.

Gli altri partiti hanno usato soltanto eccezionalmente la pluri-candidatura, magari per favorire l’esposizione degli esponenti della società civile cooptati nel processo rappresentativo (è il caso del medico di Lampedusa, Pietro Bartolo, candidato nel PD). Tuttavia questi ed altri tentativi di «apertura» delle liste ad indipendenti ed amatori della politica finiscono per sottrarre spazio a ricandidature e riconferme. Ne sa qualcosa Mario Borghezio, europarlamentare storico del Carroccio, «rottamato» nella selezione dei candidati dal partito di Salvini. Ma anche gli apprezzati parlamentari di altri partiti, ricandidati e poi usciti sconfitti nella lotta per le preferenze – i casi del democratico Roberto Gualtieri e della deputata della destra Roberta Angelilli sono tra i più evidenti.

Per capire quale sarà il consolidamento di questo ceto parlamentare sarà necessario sviluppare un ragionamento sulle caratteristiche personali e motivazionali dei singoli eletti. Non mancano personalità autorevoli e assai visibili – Giuliano PisapiaCarlo Calenda, Elisabetta Gualmini per il Pd, Antonio Rinaldi Francesca Donato per la Lega – ma l’impressione complessiva è quella di una delegazione ancora variegata e «piegata» sulle esigenze dei modelli di carriera attualmente prevalenti in Italia: la «squadra del capo» nei partiti del centrodestra, sia pure completata nella Lega dall’apporto sostanziale di molti sindaci ed amministratori di partito; l’ormai classico reclutamento del Movimento Cinque Stelle, che garantisce (per ora) una seconda chance di candidatura a molti rappresentanti uscenti, affiancando loro una breve lista di capilista, scelti dai vertici e ratificati dalla consultazione on line degli iscritti; infine, il modello del compromesso tra le tante componenti interne (e non solo interne), che caratterizza da tempo la formazione della classe politica del Pd.

Un film tutto sommato già visto. Per questo, prima di parlare di un ceto di parlamentari europei innovativo e capace di imporre una nuova agenda all’intero scenario decisionale della Ue, forse conviene attendere qualche mese.

* Luca Verzichelli insegna Sistema Politico Italiano e Global Comparative Politics all’Università di Siena

 

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