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di Guido Ortona*

1. Premesse. Con il termine “populista” gli avversari dei partiti tacciati di essere tali sintetizzano la loro critica in un termine generico, dispregiativo e oscuro. In questo intervento cercherò di dare un significato a tale termine, con riferimento alla situazione del nostro paese, vale a dire in un sistema (ancora) sostanzialmente democratico, nonostante alcune disfunzioni.

Partiamo da quello che è il meccanismo fondamentale su cui si basa una democrazia parlamentare; che può essere riassunto come segue:
a) esistono delle organizzazioni (i partiti) che elaborano dei programmi politici che sottopongono agli elettori;
b) i vari programmi vengono portati a conoscenza degli elettori, in modo che possano giudicarli;
c) gli elettori decidono chi delegare come loro rappresentanti sulla base delle loro preferenze riguardo a questi programmi;
d) se nessun partito ha la maggioranza si faranno dei compromessi fra i diversi programmi;
e) infine, se i partiti deludono i loro elettori saranno sanzionati con un calo dei consensi alle elezioni successive.
Quanto sopra non è solo un modello teorico, bene o male le cose in una democrazia parlamentare normale funzionano così, e questo vale anche per l’Italia; tranne che per un punto, di cui diremo.

2. Partiti normali e no. Possiamo allora operare una prima distinzione fra partiti che chiamerò “normali”, cioè quelli che puntano a massimizzare i loro voti proponendo programmi agli elettori, sia pure sotto il vincolo costituito da interessi lobbistici che non possono essere del tutto ignorati, e partiti “altri”, che operano in modo opposto, vale a dire che puntano a soddisfare interessi lobbistici, inconfessati o meno, sotto il vincolo di non deludere troppo gli elettori. Fra gli interessi lobbistici due sono particolarmente importanti, non solo in Italia: quello della cosiddetta “Casta”, gli esponenti politici che aspirano a mantenere e possibilmente espandere il loro potere; e quello costituito dagli interessi di piccole lobbies locali, che cercano di unirsi in un partito per avere più forza, ma ovviamente in tal modo rendono la linea di quel partito erratica. I mezzi sono i più vari, come sappiamo: cambiare se necessario partito, cercare di aggirare con opportune norme i vincoli elettorali, e soprattutto promuovere schieramenti elettorali “da Tsipras a Macron”, cioè assolutamente eterogenei come programmi ma auspicabilmente maggioritari.

3. Partiti populisti e no. E’ evidente quindi che definire “populista” un partito solo perché propone al popolo un insieme di politiche è sbagliato: se quelle politiche costituiscono un programma concreto e realizzabile (nel senso che il partito suggerisce anche dove trovare le risorse, come affrontare le conseguenze, ecc.) quel partito è semplicemente un partito “normale”. Occorre qualcosa di più; e cioè, a mio avviso, che quelle proposte siano irrealizzabili, e che chi le propone riesca a nasconderlo agli elettori – in altri termini, che gli elettori votino per un partito in quanto attratti da proposte che loro pensano siano realizzabili ma in realtà non lo sono. Facciamo degli esempi, per chiarezza. La proposta di una tassa patrimoniale è una proposta normale (ovviamente, non necessariamente giusta), e chi è d’accordo sarà più propenso a votare il partito che l’ha avanzata. Chi propone un mondo più verde chiede i voti in cambio di un ideale non immediatamente realizzabile (e forse mai), magari per propagare il medesimo, ma l’elettore lo sa, e non viene ingannato. Ma chi propone per esempio di ridurre gli stipendi dei politici in modo da risparmiare 100 miliardi inganna gli elettori, perché tali stipendi ammontano a molto meno di 100 miliardi; e gli elettori non vengono informati su ciò.
La definizione di “populista” qui adottata non è solo plausibile: corrisponde abbastanza bene a ciò che intendono con questo termine gli esponenti politici e i giornalisti che accusano un partito di essere tale. Si potrebbero fare moltissimi esempi; ne bastano due che mi sembrano particolarmente rappresentativi, sia per il tono sia per l’autore: “Di Maio perde sempre più contatto con la crosta terrestre, si mette in orbite lontane dal nostro pianeta…”; “Le promesse dei 5S sono folli e irrealizzabili” (1). L’idea è insomma che i populisti prosperano perché illudono gli elettori con promesse impossibili da mantenere.

4. Una tipologia di partiti. Abbiamo quindi due dicotomie, che possiamo incrociare fra loro per ottenere quattro tipi di partiti: partiti “normali” (fanno promesse in cambio di voti, anche se sono esposti al peso delle lobbies) e partiti “altri” (rappresentano un insieme di lobbies e/o la classe politica, anche se non vogliono perdere troppi voti); e partiti “populisti” (fanno promesse non realizzabili in mala fede) e quelli “non populisti” (fanno proposte realizzabili o ideali) (2). Possiamo allora guardare un po’ più da vicino le quattro tipologie che ne risultano.
Un partito non populista e normale sarà quello che dovrebbe essere un partito in una democrazia che funziona bene: avanza proposte credibili e sulla base di esse chiede di essere votato. Un partito populista e normale, viceversa, farà proposte demagogiche e irrealizzabili, ma cercherà di convincere gli elettori che tali non sono onde essere votato. Un partito non normale e non populista farà proposte presumibilmente minimali e agirà in modo umbratile: avanzerà proposte che favoriscono le lobbies da cui trae legittimazione, ma probabilmente queste saranno in contrasto con interessi più vasti e quindi lo farà sottovoce; e per lo stesso motivo sarà molto cauto nel fare proposte tali da propiziare voti, se ciò contrasta con gli interessi di lobbies. Infine, un partito non normale e populista cercherà di agganciare alle politiche pro-lobbies che intende promuovere delle proposte irrealizzabili ma tali da oscurare le politiche di cui sopra nell’immagine che avranno gli elettori. Prima di procedere, è bene ricordare di nuovo che probabilmente nessun partito appartiene interamente a una categoria pura: un partito normale non sarà del tutto insensibile alle lobbies, e un partito non populista difficilmente sfuggirà alla tentazione di fare anche qualche promessa di troppo.

5. Una condizione necessaria per il populismo. Ora, qui c’è un punto importante, su cui torneremo: perché gli elettori siano ingannati occorre che ci siano dei media abbastanza potenti che sostengono l’inganno. In una democrazia normale, quale descritta dai cinque punti iniziali, un partito populista come qui definito non potrebbe fare molta strada, perché i media chiarirebbero che i loro programmi sono in realtà irrealizzabili. Perché tali partiti possano prosperare occorre che il famoso “cane da guardia della democrazia” stia dormendo, cioè che il punto b) dell’elenco iniziale funzioni male. A fortiori, quindi, non potrebbero prosperare se i principali organi di informazione fossero impegnati non a sostenere, ma a criticare i partiti populisti.
Abbiamo quindi questo risultato: in una realtà come quella italiana un partito populista non potrebbe esistere. Eppure secondo la vulgata tali partiti, la Lega e soprattutto il M5S, non solo esistono ma se la cavano piuttosto bene. Come mai? Per la Lega non ci sono problemi, in quanto esistono parecchi “giornaloni” (o canali televisivi) che diffondono il suo messaggio. Ma i 5S? A mio avviso ci sono due motivi, più complementari che alternativi.

6. L’antipopulismo. Il primo consiste nella mancanza di significato del termine “populismo”. I principali media sono impegnati a fondo in una campagna di denigrazione del M5S (e anche della Lega, ma meno). L’assunto di fondo è “tutto ciò che il M5S fa è sbagliato”. Questo assunto è evidentemente indifendibile in quanto tale; bisogna trovare un’etichetta che lo giustifichi. “Populismo” va bene. Ha una connotazione negativa, e non richiede altre spiegazioni. E’ un po’ la stessa semantica con cui veniva lanciata l’accusa di “eresia” cinquecento anni fa, quella di “giacobinismo” duecento anni fa e quella di “comunismo” cento anni fa.
Ma perché i principali media lanciano con tanto accanimento questa accusa? Rispondere a questa domanda ci porta al secondo motivo della presunta diffusione del populismo; e cioè che i gruppi sociali che oggi dominano in Italia e che vedono il loro dominio vacillare (Casta inclusa), e i partiti e i media che ne sono espressione, considerano populisti i partiti che qui abbiamo definito normali. E’ indubbio che il M5S ha partecipato alle elezioni del 2018 con un programma piuttosto chiaro e che di questo programma ha realizzato in pochi mesi parecchi punti importanti: il decreto dignità, il decreto anticorruzione e il reddito di cittadinanza (e altri minori); e che i punti programmatici indicati in vista delle elezioni europee (e forse politiche) sono realistici (3). I provvedimenti realizzati sono di rilevanza analoga, se non superiore, a quella dell’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori e della legge Fornero (e ovviamente di segno opposto). Ma rispetto ai provvedimenti del governo precedente ci sono due differenze fondamentali: e cioè che erano inseriti in un programma valutabile dagli elettori, e soprattutto che esulavano dai confini fissati dalla convenzione fra partiti allora vigente, che escludeva certi temi e imponeva che sul piano economico si restasse entro il recinto dell’austerità e della flessibilità del lavoro, e sul piano della rappresentanza politica non si uscisse dalla Casta, salvo eventuali nuovi accessi per cooptazione. La vera novità del M5S è stata quella di fare proposte che esulavano dai confini fissati dall’ortodossia economica e proporre una rappresentanza politica estranea alla Casta. Questi sono dati di fatto che naturalmente non implicano che le proposte dei 5S fossero necessariamente giuste, o che i loro rappresentanti fossero necessariamente migliori di altri; ma mi pare indubbio che sulla base di quanto sopra il M5S è sicuramente un partito normale, probabilmente anzi l’unico fra i partiti maggiori a essere tale.

7. Normalità e anormalità in pratica. Per una classe politica abituata a rispettare rigorosamente determinati limiti questa normalità appare come qualcosa di eccezionale, e quindi percepito come antisistema, e quindi ancora (essendo ai suoi occhi il sistema vigente giusto per definizione) come qualcosa di eversivo. In pratica, ciò che appare eversivo (e quindi etichettato come “populista”) è che per il movimento 5S è fondamentale l’appoggio popolare, mentre esso era molto meno importante per i partiti che fino al 2018 si spartivano il potere, cioè FI e PD (e relativi satelliti). Fra di essi vigeva una convenzione che imponeva che le alternative e le candidature offerte agli elettori restassero entro una cornice definita (in estrema sintesi, rispetto assoluto delle austere politiche eurocratiche ed essere membri della cosiddetta Casta). Questa cornice naturalmente era troppo stretta per non creare malcontento, e infatti ne ha creato parecchio; per ovviare a ciò si è cercato di limitare lo spazio politico in modo tale da non consentire agli elettori di scegliere al di fuori di quella cornice. Essenzialmente con due strumenti: la demonizzazione terroristica delle alternative che ne esulavano e opportuni interventi sulla legge elettorale. Tutto ciò implicava un’evidente violazione dei principi elencati all’inizio, e quindi creava una situazione non normale dal punto di vista del corretto funzionamento della democrazia. Il populismo imputato ai 5S corrisponde quindi al fatto che si tratta di un partito popolare, ovvero normale. Per i partiti “non normali” la normalità è populismo (4).

8. Riassunto. Possiamo riassumere quanto sopra come segue. Andare a caccia di voti con promesse irrealizzabili è populismo. Cercare di ottenere voti con programmi politici realistici è democrazia (non è richiesto che questi programmi siano giusti, qualsiasi cosa ciò voglia dire: la democrazia perfetta non esiste). La linea divisoria fra populismo e democrazia può a volte non essere chiara. Chi confonde il secondo modo di ottenere voti con il primo crede di essere contro il populismo, ma è contro la democrazia.

Note

(1) Rispettivamente Tito Boeri, allora presidente dell’INPS, a proposito del cosiddetto “Decreto Dignità”, 14 luglio 2018 (citato dal “Fatto Quotidiano” del 5 maggio 2019), e Matteo Renzi, ex-segretario del PD su Facebook, 11 maggio 2018.
(2) Come spesso avviene con le dicotomie, abbiamo qui una robusta semplificazione: un partito non populista può fare anche delle proposte irrealizzabili insieme a quelle realizzabili, e viceversa un partito populista può fare anche delle proposte realizzabili accanto a quelle irrealizzabili. Diciamo che un partito è populista quando le proposte che attirano voti sono soprattutto quelle irrealizzabili, e che non lo è nel caso opposto. Si noti che la dicotomia realizzabile/non realizzabile non ha nulla a che fare con quella giusto/ingiusto o con quella giusto/sbagliato. Quando per es. Trump alza barriere doganali contro la Cina attua una politica molto probabilmente sbagliata dal punto di vista economico, ma realizzabile.
(3) Questi punti sono cinque: salario minimo, gestione pubblica dell’acqua, taglio degli stipendi dei parlamentari, legge sui conflitti di interesse, e depoliticizzazione della direzione degli enti sanitari.
(4) Consideriamo per esempio la politica del PD. Il “partito della nazione” (che avrebbe dovuto avere la maggioranza assoluta dei seggi grazie all’Italicum, purché avesse avuto la maggioranza relativa) era espressamente pensato come un’alleanza di forze politiche anche molto diverse, che avrebbero dovuto trovare i necessari compromessi entro il partito, in contrasto con l’assunto fondamentale secondo cui ogni elettore sceglie il partito preferito e la contrattazione avviene fra partiti.

*Guido Ortona è stato Professore Ordinario di Politica Economica presso l’Università del Piemonte Orientale

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