di Mauro Barisione*

È possibile che il voto per le elezioni europee si stia poco a poco europeizzando e, quindi, de-nazionalizzando? Per andare in questa utile direzione bisognerebbe che gli elettori, ma anche i media e, prima ancora, i politici, iniziassero a ragionare meno nei termini provinciali della politica interna e di più guardando ai rapporti di forza nel futuro parlamento europeo, ai gruppi parlamentari e ai partiti europei, ai loro Spitzenkandidaten (i candidati alla presidenza della Commissione europea) e, soprattutto, ai grandi temi della politica europea.

Sui temi, bisogna riconoscere che un tentativo di avvio del dibattito sovranazionale è stato fatto da Emmanuel Macron con la sua “lettera agli europei”, pubblicata il 4 marzo 2019 in 24 lingue, cui ha riposto finora la nuova leader della CDU tedesca, Annegret Kramp-Karrenbauer. Ma anche il tema della Brexit e quello dei migranti, le controversie intorno all’ungherese Orbán, il braccio di ferro tra la Commissione europea e il governo italiano sulla legge di bilancio, l’incidente diplomatico provocato da Luigi Di Maio con il sostegno ai gilet gialli francesi, perfino le reazioni all’uscita del presidente dell’Europarlamento Antonio Tajani sui lati edificanti del fascismo, nonché il rilancio del tema ambientale attraverso la battaglia simbolica di Greta Thunberg, sono tutti indizi di una crescente “politicizzazione”, e quindi conflittualità, della politica europea. Ma anche, appunto, della sua “europeizzazione”, o percezione di importanza al di là dei confini europei.Anche i social media, di solito accusati degli effetti più deleteri, aiutano in questo caso la formazione di uno spazio pubblico autenticamente europeo.

Proviamo dunque a de-italianizzare il dibattito intorno alle elezioni europee. Certo le candidature, le alleanze e, ancora di più, i risultati di queste elezioni avranno delle innegabili ripercussioni sulla politica interna, come la tenuta del governo giallo-verde e le strategie per le future, forse imminenti, elezioni politiche. Ma dobbiamo abituarci a pensare che le conseguenze sulla politica europea non saranno meno importanti.

Il dato fondamentale è che, salvo imminenti e al momento non prevedibili cataclismi politici, l’Italia contribuirà a spostare a destra la composizione del nuovo parlamento europeo, e quindi a rendere l’Europa meno facilmente governabile.

Una stima verosimile, in attesa della (solitamente poco influente) campagna elettorale europea e nonostante la possibile “volatilità” degli elettori, potrebbe vedere il contributo italiano (PD) al gruppo dei socialisti europei dimezzato rispetto alle elezioni del 2014, così come quello (FI) al gruppo dei popolari, mentre l’apporto di eurodeputati 5s potrebbe essere grosso modo invariato rispetto alle precedenti europee (ma con la grande incognita della costituzione di un gruppo cui sono già venuti meno gli ex-alleati dell’UKIP). Tuttavia, potrebbe aumentare di molto – forse di cinque volte – il contingente leghista, finora confinato nel gruppo della destra radicale insieme al Front National di Marine Le Pen, ma che proverà così ad assumere la leadership europea delle forze nazionaliste, autoritarie e anti-immigrati.

Certo, il voto europeo è, finora, per lo più la sommatoria di 27 voti nazionali. L’Italia riflette però alcune tendenze generali. La prima è il ridimensionamento del peso dei progressisti europei (specie per il calo della SPD tedesca e lo sprofondamento del PS francese), il cui gruppo parlamentare sconterà anche l’uscita dei laburisti britannici; al contrario, i popolari non saranno colpiti dalla scomparsa dei Tories, che facevano parte del gruppo dei nazional-conservatori, lo stesso cui appartengono anche Fratelli d’Italia, e ormai dominato dai polacchi di Kaczy?ski. La seconda tendenza è la crescita (certo negli altri paesi meno forte e rapida che in Italia) dell’ondata “sovranista”, che potrebbe portare alla costituzione di un unico gruppo della destra nazionalista europea, magari sotto la guida di Salvini.

Ci sono margini di cambiamento di queste stime? Sì, ma non molti. All’Italia spetteranno 76 seggi. Per un partito, prendere un punto percentuale in più o in meno non basterà quindi a eleggere un eurodeputato in più o in meno, e anzi non farà anzi nessuna differenza per chi non raggiungerà la soglia del 4% necessaria per entrare nel parlamento. Il confronto tra i risultati delle elezioni europee del 2014 e delle politiche italiane del 2018, più l’insieme dei sondaggi degli ultimi mesi sulle intenzioni di voto, uniti ai risultati delle recenti elezioni amministrative, consegnano in effetti un quadro abbastanza chiaro degli attuali rapporti di forza tra partiti italiani: Lega in testa, poi competizione tra PD e M5S, tutti gli altri al di sotto del 10%.

Fra gli elementi di incertezza, gli studi elettorali ci ricordano alcuni meccanismi tipici e ricorrenti nelle elezioni europee, che possono però tradursi in esiti diversi nei singoli casi. L’astensionismo è, di norma, più elevato. Alle europee del 2014 l’affluenza in Italia fu ad esempio solo del 57%, contro il 75% alle politiche dell’anno prima. Inoltre, proprio perché ancora percepite come “secondarie”, le elezioni europee vedono smobilitarsi per primi gli elettori meno politicizzati e meno motivati, specie quelli che hanno votato per partiti al governo che si trovino già oltre la metà del proprio mandato. Se in Italia è troppo presto perché questo effetto negativo del ciclo elettorale colpisca l’ancora popolare governo Conte, è però prevedibile un’astensione relativamente elevata fra gli elettori del Movimento 5 Stelle e una buona spinta al voto fra l’elettorato di centrosinistra, in chiave negativa (anti-Salvini) e ora, forse, anche positiva (per Zingaretti). Potrebbero approfittare della logica specifica delle elezioni europee anche le piccole forze liberali ed europeiste (+Europa), che però porteranno al massimo pochi parlamentari al gruppo dei liberal-democratici europei. L’area alla sinistra del PD sarà, invece, forse troppo frammentata per poterne beneficiare a sua volta.

Ma la sfida più grande verrà dopo, e non riguarderà solo l’Italia: quale maggioranza potrà sorreggere la prossima Commissione europea, tradizionalmente affidata a una coalizione di socialisti e popolari? Dato il calo dei socialisti e degli stessi popolari, e con l’ascesa dei liberal-democratici che potranno contare sui nuovi europarlamentari eletti nelle liste di Macron, una grossa coalizione tra questi tre gruppi sarà l’opzione più probabile? Ma questo esito non alimenterà la reazione populista, specie di destra, che potrà denunciare a gran voce la convergenza ideologica delle “élites” europee liberal-progressiste-moderate, e porre le basi per la successiva conquista elettorale dell’Europa, allo scopo di trasfigurarla o disfarla? Questi sono i dilemmi – veramente europei – che seguiranno l’esito, in sé non così imprevedibile, delle elezioni del maggio 2019.

* Mauro Barisione, Presidente ITANES (Italian National Election Studies), insegna Sociologia dei fenomeni politici all’Università di Milano

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