di Paolo Segatti*

Molti scommettono che alle prossime elezioni la percentuale alle urne sarà inferiore rispetto al 75,2% delle precedenti. Il timore è che si possa superare il calo di cinque punti che si è verificato tra le politiche del 2008 e quelle del 2013. E’ compito dei partiti chiarire perché è rilevante per gli elettori andare a votare o meno

Quanti andranno a votare alle prossime elezioni politiche? Ad un mese e mezzo di distanza dal 4 marzo difficile fare previsioni. Molti sono però pronti a scommettere che i votanti saranno meno di quelli che andarono alle urne nel 2013. Allora furono il 75,2% degli elettori. Una percentuale in fondo ragguardevole se confrontata a quella di altri Paesi europei. Il problema vero è che in quasi tutte le elezioni che si sono tenute in Italia negli anni successivi al 2013 la partecipazione è scesa. Ha colpito l’opinione pubblica che alle regionali siciliane lo scorso anno i votanti siano stati meno della metà degli aventi diritto, dimenticando però che anche nel 2012 andarono a votare meno della metà degli elettori.

Fa invece decisamente impressione che in Emilia-Romagna alle elezioni regionali del 2014 sia andato a votare poco più di uno su tre degli aventi diritto, mentre nel 2010 furono due su tre. Un decremento di entità grosso modo simile rispetto al 2010 c’è stato anche nelle regioni ordinarie in cui si è votato nel 2015. Pure alle elezioni europee del 2014 l’affluenza è scesa di nove punti percentuali rispetto alle precedenti elezioni del 2009. Appare dunque comprensibile il timore che alle prossime politiche la partecipazione scenda ulteriormente dal livello del 2013, forse addirittura di più del calo di cinque punti che si è verificato tra le elezioni politiche del 2008 e quelle del 2013 (vedi figura).

Alle elezioni regionali, come alle europee e alle amministrative, di solito la partecipazione è più bassa di quella che si verifica alle politiche. Ma anche se l’affluenza non scenderà proprio ai livelli di questo tipo di elezioni, la tendenza negativa che abbiamo visto in tutte le elezioni non lascia ben sperare su quanto accadrà il 4 marzo prossimo.

Perché scende la partecipazione? Certo, conta la sfiducia profonda che gli italiani provano verso la politica. Ma sino un certo punto. Secondo uno studio Itanes, nel 2013 tre elettori su quattro avevano detto di non avere nessuna fiducia nel Parlamento a fronte del fatto che poi tre su quattro si sono recati alle urne. Nel 2008 i votanti sono stati circa otto su dieci, ma quasi altrettanti dicevano di non avere nessuna fiducia nel Parlamento. Insomma nelle ultime due elezioni, come del resto nelle precedenti, c’è sempre stato un numero enorme di nostri concittadini che entra o entrava in cabina con sentimenti non benevoli o almeno sospettosi verso l’oggetto della scelta che stavano per compiere. Un dato questo del quale tener conto, non per negare il ruolo della disaffezione politica, ma per chiederci quali altri fattori possono influire sulla decisione di andare a votare o meno. Due sono importanti. Il primo in fondo è ovvio.

Quale che siano i sentimenti verso la politica, poi alla fine quello che conta è se si percepisce che le elezioni abbiano o meno una posta in gioco chiara, per la quale vale la pena uscire di casa. Nel 2006 (vedi figura) l’affluenza è salita rispetto al 2001.

Non a caso in quelle elezioni la competizione tra le due coalizioni è stata serrata, e alla fine la differenza tra di loro è stata minima quanto ai risultati. Al referendum costituzionale del dicembre 2016 la partecipazione è stata relativamente elevata perché a molti elettori sembrò una buona occasione per dire di no al governo in carica. Il punto è che spetterebbe ai partiti mettere gli elettori nella condizione di percepire con chiarezza su che cosa si decide. Se nel mese e mezzo che manca alle elezioni i partiti riuscissero a chiarire agli elettori quale è la posta in gioco per il paese e per loro presi singolarmente, forse il temuto calo di affluenza non si verificherebbe. Che poi ci riescano nella situazione attuale è un’altra cosa.

Il punto però è che sulla scelta di andare a votare è decisiva, più della cultura civica o dei sentimenti degli elettori, la capacità dei partiti di chiarire perché è rilevante per gli elettori andare a votare o meno. Conta soprattutto per coloro i quali andare a votare non è diventata una abitudine. I giovani per esempio. Infatti, le coorti di età che dagli anni Novanta in poi sono entrati nel corpo elettorale (a spanne tra un quarto e un terzo dell’elettorato odierno) non hanno sviluppato una solida consuetudine al voto. D’altro canto sono usciti per ragioni fisiologiche dal corpo elettorale elettori che votavano sempre o quasi.

Il risultato è che per effetto del ricambio demografico il livello di partecipazione complessivo degli italiani scende e diventa anche più variabile tra elezioni di tipo diverso. Aveva dunque perfettamente ragione il Presidente Mattarella ad insistere sui giovani nel suo discorso di fine anno. La qualità della nostra democrazia elettorale dipende dalle loro abitudini di voto. Spetta a chi chiede il loro voto creare le condizioni perché possano diventare elettori abitudinari come lo sono stati e lo sono ancora i loro padri e i loro nonni (acciacchi permettendo).

*Paolo Segatti è professore di Sociologia dei Fenomeni Politici presso l’Università degli Studi di Milano.

Articolo consultabile su Repubblica.it

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